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[ un cartiglio ]
Schapiro - Ciò che gli impressionisti apprendevano circa la proprietà dei colori e della luce, tuttavia, non veniva tradotto in asserzioni formali o verificato in condizioni sperimentali controllate. Si trattava piuttosto di osservazioni empiriche applicate con spirito pratico sulla base dell’idea che gli artisti si facevano di come esse avrebbero inciso sul loro dipinto, e di quanto avrebbe soddisfatto una vaga ma risoluta percezione dei loro obiettivi estetici in pittura.[1]
Eravamo tutti d’accordo, con Heidegger, di considerare un paio di scarpe senza filosofia!… Non vi sarete mica pentiti di tanta indulgenza?!
Io certamente vi ho preso in parola; ma non vorrei pensaste che sia per mancanza di rispetto e abuso della tolleranza concessa se a volte mi abbandono alla macchietta e alla parodia...
So bene che non è consigliabile prepararsi all’inverno facendo assegnamento soltanto sulla raccolta di provvidenziali rami caduti nel bosco; così come non è serio sostenersi su brani troncati e disarticolati brutalmente dal testo.
Ma lo è forse di più discettare su dei frammenti - siano pure di Eraclito o Parmenide?
Non prendetemi troppo sul serio se adesso la mia impertinenza arriva a chiedervi di consentirmi di trattare, e di continuare a trattare i testi fin qui utilizzati alla stessa maniera di come i loro autori hanno trattato le scarpe di van Gogh.
Che ne dite se io, ad esempio, sostituendo le scarpe in questione con i libri in questione dicessi - con le stesse parole di Heidegger:
Consideriamo a titolo di esempio, un “mezzo” assai comune per conoscere le cose: un libro di filosofia. Per discuterne non occorre affatto averne sviscerato uno. Tutti sanno cos’è. Ma poiché si tratta di una descrizione immediata, può essere utile facilitare la conoscenza effettiva. A tal fine può bastare un testo determinato. Scegliamo, ad esempio, un’opera di Heidegger, che ha ripetutamente scritto questo tipo di libri”…

E poi se, per appropriarmi delle circostanze attenuanti presentate in difesa di Heidegger, dichiarassi a mia volta e con le medesime parole del francese, che:

...la mia “intenzione” non era quella di interessarmi di una determinata opera di Heidegger, di Derida e neppure di Schapiro, di descrivere e di indagare la loro individualità, in qualità di filosofi… E’ chiaro, per il momento che i testi e la loro contesa sulle scarpe è, in ipotesi, solo un accessorio intuitivo. Mi si può anche rimproverare questo modo di procedere illustrativo, ma è qualcosa di diverso dal far credere che io abbia inteso descrivere i testi in sé, per potermi poi rimproverare degli errori di lettura nella prospettiva di questa ipotesi che, per il momento, non è la mia. Per il momento, l’oggetto da descrivere, da interpretare, non è il testo e non è neppure l’oggetto in quanto scritto, ma un mezzo abituale come i libri, che tutti sanno cosa sono. Non c’è nulla di quanto trattato da me finora che riguarda o che pretenda delimitare la loro specificità filosofica; e neppure la specificità di questi testi in quanto differenti da altri testi...[2]
Posso con ciò forse ritenere di aver fatto una sufficiente raccolta di attenuanti per essermi impegnato, con consapevole imperizia, nell’esame di tanti ontologici dilemmi calzaturieri contenuti in tutta questa faccenda di scarpe e di altre cose in pelle?
Sinceramente io non lo credo affatto...
Allora, faccio un altro tentativo per procurarmi tutta la vostra comprensione.
Tra tanti sapientissimi discorsi concedetemi il favore di una lettura ingenua”– ha detto Derrida da qualche parte[3]. E se perfino lui arriva a chiedere la concessione di una lettura ingenua, non penso che debba essere poi così bizzarro da parte mia avanzare la stessa richiesta - considerando i sapientissimi discorsi contenuti nell'Origine di Heidegger o nelle Restituzioni di Derrida...
O devo credere che la sua era soltanto una battuta spiritosa che non ho capito?

Sono convinto che rileggendo più attentamente gli scritti dei tre professori scoprirei certamente mille fondati motivi per abbandonare il campo. Ma, allo stesso tempo, avverto anche che queste mie pagine hanno una loro peculiare autonomia che non richiede alcun conforto esterno e miincoraggia a proseguire con animo spontaneo, senza nessun timore per l’autorevolezza dei testi con cui mi sono andato incautamente a compromettere.


Pensate che io stia facendo ricorso a penosi espedienti retorici allo scopo di favorire la vostra benevolenza nei miei riguardi?
Non lo troverei per niente disdicevole; tenuto conto che mi sto dando da fare con dei professori tanto illustri e illustrati[4].

[1] - Schapiro, L’impressionismo – Riflessi e percezioni (1997), ed. Einaudi, Torino 2008, p. 241-242.
[2] - Parodia da J. Derrida, Restituzioni…, cit., p. 293: “Difesa di Heidegger, circostanza attenuante: la sua “intenzione” non era quella di interessarsi di una determinata pittura, di descrivere e di indagare la sua individualità, in qualità di critico d’arte…E’ chiaro, per il momento il quadro è, in ipotesi solo un accessorio intuitivo. Si può anche rimproverare ad Heidegger questo modo di procedere illustrativo, ma è qualcosa di diverso dal far credere che intenda descrivere il quadro in sé, per potergli poi rimproverare degli errori di lettura nella prospettiva di questa ipotesi che, per il momento, non è la sua. Per il momento, l’oggetto da descrivere, da interpretare, non è il quadro e non è neppure l’oggetto in quanto dipinto, (rap)presentato, ma un mezzo abituale che tutti sanno cos’è. Non c’è nulla in quel che segue che riguardi o che pretenda delimitare la specificità pittorica, e neppure la specificità di queste scarpe in quanto differenti da altre scarpe”.
[3] - Credo in Spettri di Marx (Raffaello Cortina editore, Milano 1994).
[4] - Come disse il cuoco arricchito rivolgendosi ai falsi aristocratici di “Miseria e nobiltà”, il film di Mario Mattoli con quel comico di Totò. La pellicola è del 1954, ed è tratta dalla commedia che Edoardo Scarpetta scrisse nel 1888.



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